In una recente conversazione con uno sportivo e esperto alpinista che ha condotto una impresa la scorsa primavera in Nepal al Masnalu a 8000 metri altrettanto significativi sono stati gli spunti offerti.

Mi affascina sempre l’esposizione a mondi diversi e particolari, confrontarsi con artisti, atleti, allenatori, avventurieri, alpinisti per quanto si può apprendere da loro, dai loro contesti così diversi eppure così simili ed illuminanti per molte delle situazioni, casi e comportamenti nel lavoro, nei corridoi delle imprese, nelle organizzazioni, nel lavoro con gruppi di persone.

In una recente conversazione con uno sportivo e esperto alpinista che ha condotto una impresa la scorsa primavera in Nepal al Manaslu a 8000 metri altrettanto significativi sono stati gli spunti offerti.

“Allora come è andata la spedizione?” Marco Heltai immediatamente si è messo a parlare della importanza fondamentale della squadra che compie l’impresa. Da soli è impossibile, le sole proprie forze non bastano (là oltretutto non si riesce a recuperare), il rischio è elevatissimo…
Ma la tendenza a fare da soli, ad agire come singoli talvolta si impone prepotentemente, anche incrementando, oltre ogni modo, il rischio di non farcela. tende

E soprattutto quando si è là, in settimane di convivenza stretta, sotto una stessa piccola tenda per giorni e giorni, emergono emozioni, sentimenti, tensioni che faticano talvolta a restare repressi.
Si parla senza filtri, si dicono cose che poi uno non vorrebbe aver mai detto, succedono conflitti proprio nei momenti più critici per la sopravvivenza del gruppo che sta affrontando quell’impresa.

I rapporti, durante quei duri giorni in quei luoghi e in quelle condizioni estreme, cambiano.

Come proseguire in quelle condizioni “morali” oltre che fisiche che pesano come macigni?


“eh sì, prima di partire bisogna costruire la squadra, creare il clima, lo spirito di gruppo creare insomma i presupposti che saranno quelli che “terranno” tutti assieme di fronte alle difficoltà e ai passaggi impossibili.”


 

Quanto siamo veramente convinti in azienda che è solo con il gruppo che si riesce?
Come ci alleniamo a comunicare fra di noi al lavoro anche in situazioni di emergenza e di crisi?

“Pensa che in una spedizione precedente eravamo in tre legati in cordata a oltre 7000 metri senza ossigeno.
La cordata era la prima volta che era così costituita.
Nessuno di noi tre aveva già affrontato una impresa assieme; c’erano stati quel giorno dei cambiamenti: i compagni abituali di un paio delle due altre persone non potevano quel giorno andare. Così si era formata quella eterogenea cordata a tre fra di noi.
Non riuscivamo a sintonizzarci, il passo ed il ritmo che ciascuno di noi voleva condurre era diverso, anche sulle distanze fra l’uno e l’altro non eravamo d’accordo.
La fatica fisica unita a quella di non riuscire a trovare un accordo e non voler venire a patti, ha fatto sì che tutti e tre decidessimo di slegarci e di proseguire separatamente…

Una follia pura, commenta Marco. A quell’altitudine nessun errore è concesso. Si è nella zona dove non si riesce a recuperare energie. Quella, dai 7000 agli 8000 metri è chiamata “zona della morte“: se compi un errore, se cadi, se resti indietro, se cala la foschia e non vedi più nulla, sei perso.”


Marco Heltai altaQuante volte ci è capitato di prendere una decisione analoga e di fare da soli, esponendo così noi e gli altri a più grossi rischi?

Un altro fattore fondamentale è la necessità di amministrare sé stessi e le proprie energie da parte di ciascun membro della squadra. Problemi di una delle persone della spedizione crea automaticamente difficoltà e rischi anche per tutti gli altri. Bisogna che ciascuno adotti una strategia inerente il proprio recupero fisico e che aiuti i compagni nel farlo a loro volta.

Quanto poniamo attenzione alla nostra capacità, alla nostra stanchezza o calo di energie e a quello degli altri del team?
Quanto siamo consapevoli dei rischi che non considerare questi elementi fisiologici o ad esempio di carenza di competenza da parte di qualcuno del gruppo comportano?

La capacità di tenuta e di mantenere un equilibrio di ciascuno è anche data dal molto tempo di attesa: continua per giorni il brutto tempo, a nevicare tale da non consentire di procedere verso la vetta e quindi si deve attendere.
L’alpinista deve saper gestire il proprio tempo, anche il molto tempo che si ha a disposizione.
L’alpinista ha molto tempo per pensare: fin che cammina, finchè è là che attende.
Come accettarlo? Come trarne vantaggio ? Come metterlo a frutto?

Quanto siamo capaci di gestire il nostro tempo, il tempo di basso ritmo, insomma di avere una buona disciplina di sé.
Quanta attenzione poniamo alla sfera dei rapporti fra le persone quando ad esempio avviamo un gruppo di lavoro?

Situazioni estreme dunque sia per le sfide ambientali, sia per i rapporti fra le persone che sono messe così a dura prova.
“Comunque sia, sono però emozioni ed esperienze uniche” dice Marco Heltai che aggiunge:
Ogni volta che fai un’esperienza, cambi, cresci
manasluroute